mercoledì 29 febbraio 2012

Sulla FELICITA’ ...... felicità d’infanzia

Vi ricordate la fine del post precedente? “Prendete un libro di Arte o se avete un artista preferito cercate nel web la vostra opera d’arte e poi … un po’ per gioco, che come sappiamo è un’attività molto seria, immergetevi nel dipinto e raccontate una favola …… “….


Ecco questo è il mio esercizio e le mie riflessioni …


 Claude Monet - Il giardino dell'artista a Vetheuil -

Come un ricordo di felicità: un grande giardino, il cielo blu con le sue nuvole che passano, grida e giochi di bambini, grandi fiori, una mamma che sorveglia da lontano.... luci, rumori, odori particolari.
Un bambino se ne sta di fronte alla natura che si apre davanti a lui.
Più indietro la sagoma rassicurante della casa e due figure familiari quella della madre e di un altro bimbo.
Davanti gli si apre la strada, che l’attira con tale forza che esita per un istante, prima di lanciarsi.... è perfettamente felice, e il tempo per lui si è fermato, sta assaporando questo istante di perfetto equilibrio tra noto e ignoto... immobilità e movimento... ha la sensazione di un futuro senza limiti, l’intuizione che ci sarà, ancora e sempre, un infinito di felicità da vivere....

“I bambini non hanno né passato né futuro, e, cosa che a noi succede affatto, godono del presente” (Jean de la Bruyere)

Il mio rapporto con la felicità ha un po’ a che fare con quello che immagino in questo quadro: un sottile equilibrio tra l’essere radicati e prendere il volo.
Il bambino che esita a lanciarsi nel giardino è un po’ come me stessa di fronte alla vita.

La felicità per me è concepibile solo nell’apertura al vasto mondo. Non può durare nel ripiegamento su se stessi, nella chiusura. Un perimetro angusto non è mai una scelta: di solito è dettato dal dolore o dalla paura, da percorsi di vita che ce lo hanno imposto come unica decisione possibile per la sopravvivenza.

Al contrario, l’istinto dell’infanzia si rivolge alla felicità in una dimensione più ampia.

D’altra parte un simile slancio è possibile solo se esiste una base “sicura” alla quale è possibile tornare. Il bambino non si lancerebbe mai in quell’impressionante giardino senza tali ancoraggi, senza essere convinto che la madre e la casa sono là per accoglierlo al ritorno dalle sue avventure.

La felicità non consiste nel restarsene chiusi nella propria casa, attaccati alle proprie radici. Ma può consistere nel ritrovarle, nel sapere che sono là mentre si è lontani....

...noi abbiamo bisogno di certezze, anche limitate, per tollerare l’incertezza dell’illimitato... avere salde radici per osare lanciarsi....

La felicità si nutre del libero gioco tra il noto e l’ignoto. Tra la tentazione dell’immobilità e della sicurezza – con il rischio della noia e del deperimento – e la  ricerca della sfrenata novità – con il rischio della superficialità e della vacuità .....

Guardo il bambino nel giardino: ha risolto il dilemma.... finito di esitare, si lancia....
Si lancia fiducioso tra le braccia della felicità......

venerdì 24 febbraio 2012

La favola della casa blu ...



Marc Chagall - La casa blu (1917)

Come ho più volte ho ripetuto nei vari post di questo blog, l’arte è un mezzo eccezionale per parlare di noi stessi offrendoci quel vocabolario emozionale che spesso non troviamo con le parole; in questo articolo vedremo come un’opera d’arte possa diventare un contenitore emotivo su cui proiettare parti di noi stessi.
Di seguito un esempio di come l’immagine di un quadro sia in grado di  stimolare il racconto di una favola….

“C’era una volta una casetta piccolina che se ne stava sola sola su una collina a guardare sempre, in lontananza, le belle case grandi del paese vicino. Tutti i giorni si chiedeva: “Chissà se un giorno anch’io diventerò bella e grande come loro? Magari potrò essere la principessa delle case e tutti mi ammireranno, perché anch’io avrò finestre bellissime, ampie e con vetri preziosi. Le mie mura saranno alte, colorate e piene di fregi importanti. Tutte mi invidieranno perché nessuna casa sarà così perfetta come sarò io!”
Ma il tempo passava e la casetta ogni tanto perdeva un pezzo, cadeva una finestra, si apriva una crepa nel muro, il tetto perdeva acqua in tanti punti e addirittura un bel giorno cadde giù la porta. Tutti potevano entrare senza chiedere permesso a nessuno e comunque lei restava lontana dalle altre case sempre sola a guardare. Poi si rese conto che tutte le ferite che venivano fatte alle sue mura e al suo tetto prima o poi l’avrebbero fatta crollare. Fu così che decise, che nonostante tutti i suoi buchi e i pezzi cadenti, doveva fare qualcosa. Non poteva arrendersi e anzi capì di dover partire proprio da quelle crepe, perché la Vita dà la possibilità a tutti di creare bellezza con quello che si ha. La primissima cosa che dovette fare fu quella di imparare a perdonare le altre case che l’avevano ignorata e lasciata sola per tanti anni e poi se stessa per tutti quei buchi e quelle crepe che aveva addosso. Non era per niente facile, ma l’aiutò moltissimo girare lo sguardo da altre parti.
Infatti iniziò a guardare in su, verso le vette del Mondo e in giù, verso le profondità della Terra e ciò che vide gli piacque moltissimo. Su vide Libertà e giù vide Verità. Cominciò così a sentirsi una casa piena, “sgarrupata”, ma piena. Questo non succedeva sempre, però adesso succedeva! La colpì tantissimo vedere che vicino a lei c’erano degli alberi che non aveva mai considerato e gli uccellini spesso si riparavano sotto il suo tetto. Il suo sguardo non arrivava più solo fino al villaggio, andava oltre e si accorse che dalla sua collina poteva vedere addirittura il mare. Ecco che improvvisamente in un bel giorno di sole, iniziò a cantare! Non era un canto perfetto tanto meno speciale, però era sicuramente un canto d’amore! Quel canto arrivava fino al paese delle belle case grandi che aveva osservato per tanti anni, ed ora erano proprio loro che guardavano lei! Ma lei ancora non capiva perché lo facessero: lei era solo una casetta piccolina diroccata e solitaria! Perché ascoltavano il suo canto? Perché la guardavano e sembrava la chiamassero? Non riusciva a capire!
Alla fine la piccola casetta si guardò e vide che era diventata tutta blu e nonostante tutte le ferite che aveva addosso era bellissima.
Non riusciva a crederci!
Anzi erano proprio quelle ferite, quelle crepe, la sua storia e la sua solitudine che l’avevano resa unica, irripetibile, blu e bella! ….. “

Antonella Orecchio

Corso di Antropologia Narrativa Istituto Solaris
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A questo punto perché non provare????
Prendete un libro di Arte o se avete un artista preferito cercate nel web la vostra opera d’arte e poi … un po’ per gioco, che come sappiamo è un’attività molto seria, immergetevi nel dipinto e raccontate una favola …… “C’era una volta …….”


sabato 11 febbraio 2012

I materiali dell’opera artistica: “comunicare” attraverso il medium artistico



In ogni esplorazione artistica e creativa, i mezzi operativi sono un dato fondamentale. Nel campo pittorico, l’utilizzo delle diverse tipologie di colori infonde al gesto creativo specifiche potenzialità energetiche oltre che tecniche.
La scelta del materiale utilizzato consente, poi,  a sua volta importanti considerazioni. 
In un setting di ArtCounseling questa scelta va lasciata al cliente, a meno che sussistano importanti motivi che giustifichino la decisioni di offrirgli un determinato stimolo.  La libera scelta ha, infatti, un rilevante significato legato alla personalità del cliente o al disagio che sta attraversando in quel momento e ci può dare importanti indicazioni su come procedere nel lavoro.
Non è assolutamente indifferente se qualcuno utilizza i pastelli oppure le cere o i gessi, le tempere, i colori digitali o l’acquerello. Sulla base delle esperienze, dove naturalmente le eccezioni confermano la regola, si può dire che, in genere, la scelta del materiale utilizzato per la rappresentazione è pilotata dall’inconscio e, proprio in quanto non è casuale, merita un’attenzione particolare.

Se qualcuno è tagliato fuori dai suoi ambiti emozionali, si può dire che vive esclusivamente “nella sua testa”, e quindi probabilmente eviterà i colori orientandosi spontaneamente verso la matita.
Il disegno eseguito con la matita su u foglio può essere facilmente cancellato, è quindi poco impegnativo. Prima di tutto il segno può essere tracciato in modo pallido e sottile sul foglio; inoltre, anche se con la matita si possono realizzare delle ombreggiature, il suo carattere resta tuttavia, sempre quello del tratto, che ben si presta a contenere qualcosa nei suoi contorni. Da cui possiamo dire che la matita esprime in genere una qualità astratta, teorizzante, è grigia o, in ogni caso, nerastra.
Per poter comunicare con la matita un’emozione profonda è necessario possedere una capacità artistica superiore alla media, oppure una carica di energia che lasci un segno nel disegno, definendolo, il che, come le persone che preferiscono questo mezzo, nella maggior parte dei casi è reso impossibile a causa di ristagni e blocchi emotivi.
In realtà, la parsimonia con la quale questi individui delineano soltanto i contorni delle cose non origina da una volontà di ridurre tutto all’essenziale, bensì da un “non poter dare” o “non voler dare”, da una paura che trattiene l’azione e che limita il darsi e l’impegnarsi.

Se si utilizza una matita colorata, è chiaro che le linee sono colorate e quindi anche più intrise di emozioni. Tuttavia questo sentimento è piuttosto rigido e freddo. Il colore dei pastelli è secco e duro, il tratto è sottile, la mescolanza delle tinte è problematica: solo l’applicazione ripetuta riesce a scaldare e ad amalgamare i colori.

Passiamo ai pastelli a cera , essi vengono stesi sul foglio con stratificazioni che formano una patina secca, compatta e variamente lucida. I colori non si mescolano con facilità; le sfumature, spesso, sono imprecise e mostrano una certa rigidità. L’applicazione dei pastelli a cera richiede forza e intensità, cosa che ben asseconda la loro caratteristica catartica e liberatoria. Essi sono particolarmente apprezzati dai bambini, che li utilizzano per sfogare, istintivamente, tensioni e conflitti. Il tratto è approssimativo e schematico, e proprio questa impossibilità di definizione consente l’esplorazione dei contenuti emotivi senza l’intervento critico della mente. Le tinte generalmente forti e imperative.

L’utilizzo dei gessi e dei pastelli a olio, al contrario, consente di esprimere sentimenti saturi, morbidi, densi. Essi sono mezzi che scorrono sul foglio con facilità, unendosi volentieri gli uni agli altri. La loro stesura è confortevole, il tratto è indefinibile ed emozionante. Ci aiutano a prendere coscienza delle profondità delle nostre emozioni, favoriscono la distensione e fluidificano il piano emotivo facendoci riflettere sull’effettiva disponibilità che abbiamo verso noi stessi. Lavorando con questo tipo di colori, si entra facilmente in uno spazio di intimità, in cui possiamo comprendere la vera natura dei nostri bisogni, trovando la necessaria morbidezza per viverli con intensità.

Con le tempere introduciamo un medium tra noi e il foglio: il pennello. Quando usiamo dei pastelli, di qualsiasi tipo essi siano, abbiamo il colore in mano e agiamo direttamente in modo istintivo. Invece, quando usiamo il pennello, solo la punta è imbevuta nel colore, e vi è comunque una distanza dalla mano. Questa distanza ci rende virtualmente testimoni e responsabili dell’azione. Tenendo il pennello in mano, improvvisamente diventiamo coscienti che l’opera richiede l’intima volontà di crearla, la piena responsabilità e ispirazione in ogni atto. Le tempere hanno una loro sobrietà, sono duttili e vigorose usandole possiamo imparare a prenderci la responsabilità delle nostre azioni e del nostro destino, affinandoci nel trovare soluzioni inaspettate e nuovi percorsi.

Il lavoro con gli acquerelli consente di lasciar trasparire le nuance più nascoste dell’animo. Negli acquerelli l’acqua è maestra, essa è materia misteriosa, fluida e incolore e rappresenta l’invisibile flusso della vita che scorre in ogni cosa.
Nella pittura ad acquerello è propriamente l’acqua che la fa da padrona: prendendo il colore muove la propria danza, tracciando fluorescenze cromatiche e imprevedibili incantesimi. Con questo strumento è difficile imporre la propria volontà bensì è necessario imparare ad assecondarlo  e a sedurlo. Chi è abituato a forzare la direzione della sua vita (con l’amara delusione che spesso ne deriva) ha molto da imparare dall’acquerello. Esso insegna il “lasciarsi andare” che non significa passività, ma una preziosa qualità di rilassata presenza, colma di attenzione e comprensione.

Mentre i colori ad acqua sono utili per lasciarsi fluire svelando i luoghi più delicati e impalpabili della nostra anima, i colori ad olio sono fortemente corporei, ricchi di sostanze e capaci di spessore. Con essi si può rappresentare tutto e tutto rimescolare. Asciugano lentamente e sono difficili da maneggiare. Hanno personalità forti e diverse, che a volte si amano e a volte si combattono sulla tela, così come accade nel gioco della vita. Il lavoro che impasta e stende i colori ad olio, scende in profondità nelle emozioni; in qualche modo il colore ad olio assorbe e contagia con una sorta di osmosi creativa che fa essere un tutt’uno con l’opera.

E per ultimo vediamo i colori acrilici; la pittura con questo tipo di colori è la più “asciutta” tra quelle a pennello. La stesura dei colori risulta omogenea e compatta. Ogni tinta ha la facoltà di ricoprire, è una pittura che è capace di razionalità e di precisione descrittiva. Proprio in questa sua nitidezza si esprime una forte spinta alla sintesi, un voler vedere chiaro. I colori acrilici si sposano bene al gesto volitivo che scaturisce dal processo di individuazione, capace di affermare o di negare ma forse non acora pronto  a emozioni profonde in cui lasciare che l’Io si diluisca nello stupore.